DELITTO MORO: MENZOGNE DI STATO

DELITTO MORO: MENZOGNE DI STATO

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UN SARCOFAGO FATTO DI BUGIE:
LA STRAGE DI VIA FANI RILETTA
DAL PARLAMENTARE FORNARO
TRA GLADIO E 007 STRANIERI,
OCCULTO STATO E TESTI SCOMODI
ANCORA OGGI NEI GUAI

____di Fabio Giuseppe Carlo Carisio____

Peggio di Ustica, dove due generali dell’Aeronautica militare sono stati quantomeno sottoposti alla gogna mediatica di lunghi processi per turbativa alle indagini ed alto tradimento da cui sono usciti assolti per insufficienza di prove. Peggio di Via D’Amelio dove oggi la giustizia chiede conto ai poliziotti del depistaggio sulle indagini per la morte del giudice Paolo Borsellino in un processo in corso al Tribunale di Caltanisetta e la Procura di Messina dovrà vagliare anche il comportamento dei magistrati. «Il caso Moro doveva essere coperto in un sarcofago» e così è stato perché la Commissione parlamentare d’inchiesta che dal 2014 al 2017 ha sviscerato la vicenda in 174 sedute e con 440 incarichi di consulenze e perizie non è riuscita a scoprire verità inoppugnabili così potenti da riscrivere con una censura postuma le evidenti colpe dei politici che seguirono il rapimento da parte delle Brigate Rosse dopo la strage di via Fani del 16-3-1978. Ha però acclarato una valanga di menzogne di Stato in cui i nomi dei cospiratori ancora oggi vengono solo sussurrati e alcuni atti e testimoni permangono “secretati” sebbene a distanza di 40 anni. In tre ore di excursus storico-politico-giudiziario tre autorevoli studiosi del caso, nella sala consiliare del Comune di Cherasco, sabato 24 novembre, sono partiti dalle lettere scritte dallo statista durante la sua prigionia per confermare che la «versione ufficiale è piena di contraddizioni logiche, errori ed omissioni» come sancito dal protagonista principale del simposio: il deputato Federico Fornaro, segretario della Commissione parlamentare Moro.

LO STATO PROFONDO: DA GLADIO AL DELITTO MORO

Il deputato Federico Fornaro già segretario della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Caso Moro, intervenuto sabato in un convegno a Cherasco

Dietro l’uccisione dei cinque uomini della scorta, dietro il sequestro e i «55 giorni che cambiarono l’Italia» per usare il titolo del libro del giudice Ferdinando Imposimato (sul caso prima come pm e poi come avvocato dei familiari del leader democristiano) esisteva una «verità non dicibile per il contesto politico» ha ribadito Fornaro in chiusura di dibattito evocando il cosiddetto “Deep State”: «lo stato profondo, una struttura intermediaria che mira a manovrare la politica dei governanti consentendo alla nazione una sovranità limitata, per l’azione di militari dalla doppia lealtà verso lo Stato Italiano e le strutture Nato». Un’entità, questo Occulto Stato, capace di «destabilizzare per stabilizzare, nella strategia della tensione con le stragi degli anni ’80 e le coperture dei servizi segreti deviati». Un’entità evocata dallo stesso Moro in una delle sue missive, rilette in sala con vivida interpretazione emotiva dalla brava lettrice Sveva Bertini, che i carcerieri brigatisti filtrarono e fecero arrivare ai media: quella del 29 marzo in cui lo statista parla di «attività antiguerriglia della Nato», di «piccoli reparti mobili con addetti militari di vari paesi», di «comparti Nato per una collaborazione intereuropea libera, semplice ed efficace» senza le pastoie di una relazione ufficiale «intercomunitaria». Dieci anni dopo deflagrò in tutta Italia lo scandalo Gladio, ovvero l’operazione Nato Stay Behind (avviata dagli inglesi e poi sostenuta dagli americani anche attraverso la Cia), che prevedeva apparati militari pronti ad intervenire in caso di minaccia comunista in Italia e per la garanzia del controllo militare del Mediterraneo dalla penisola: da sempre considerata portaerei del Mare Nostrum. «L’essersi accorto di verità sgradevoli gli è costato la condanna a morte» ha sentenziato il magistrato Luciano Tarditi, sostituto procuratore di Asti, che ha studiato il caso anche in collaborazione di un medico legale ed ha messo in luce «il tentativo delle Brigate Rosse di giungere attraverso le lettere ad una penetrazione dei segreti» in un contesto in cui gli estremisti rossi non accettavano «un revisionismo comunista» che in politica stava per portare esponenti del Pci nel Governo, per volontà dello stesso presidente della Dc poi rapito ed ucciso; in un periodo in cui gli stessi brigatisti erano frammentati tra la fazione proletaria, concentrata sulla lotta degli operai nelle fabbriche, e quella geopolitica internazionale, capace di tessere trame con il Fronte della Liberazione della Palestina e coi servizi segreti.

IL DEPISTAGGIO COMINCIA DALLA STRAGE DI VIA FANI

La strage di via Fani il 16 marzo 1978 in cui persero i cinque uomini della scorta di Aldo Moro:Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi (AP Photo)

Dopo l’introduzione dell’avvocato penalista astese Piergiorgio Berardi, che ha fornito chiavi d’interpretazione sul contesto in cui furono scritte le lettere da Moro, sono stati il pm Tarditi ed il deputato Fornaro a focalizzare l’attenzione su alcuni palesi esempi di depistaggio a cominciare dalla strage di via Fani in cui morirono gli uomini della scorta Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. «Una carneficina che non lascia più spazio a trattative» nota l’ex segretario della Commissione Moro evidenziando che i terroristi avrebbero potuto anche rapire l’ex premier senza spargimenti di sangue. Ma appare evidente come l’azione dovesse avere anche un impatto dirompente. Ebbene l’assalto dei brigastisti è stato ricostruito «dalla Polizia Scientifica con laser e strumenti tecnici che allora esistevano». Da lì comincia a sgretolarsi il “memoriale Morucci”, così chiamato dal nome dal brigatista che dal carcere, dove finì dopo l’arresto, per primo «elaborò, con l’aiuto di una suora nelle trascrizioni, il documento sulla ricostruzione della strage e della prigionia che poi girò per altri penitenziari fino a far convergere le testimonianze degli altri brigatisti. Un memoriale che fu consegnato prima a Cossiga che alla magistratura» nota ancora Fornaro che, con esemplificazioni comprensibili anche ai profani di balistica, illustra come i quattro presunti sparatori della versione ufficiale, tra mitra residuati bellici inceppati e inesperienza, «in 180 secondi eliminarono cinque agenti tra cui il caposcorta molto esperto». Una pioggia di fuoco che intorno alle auto dello statista e della scorta lasciò a terra almeno 90 bossoli «45 dei quali non si sa da chi siano estati esplosi. Io ritengo che ci fossero almeno altri due sparatori» tra i quali «un professionista che uccide gli uomini della scorta ma non ferisce l’ostaggio» utilizzando sicuramente «un’altra arma» mai rinvenuta. Come evidenziato anche al pm Tarditi le traiattorie palesano un fuoco di copertura dall’alto, tipico di un agguato militare, e ad una mia precisa domanda sul ritrovamento dei proiettili nel corpo delle vittime allarga le braccia «sono spariti». Svaniti insieme a molte carte che portano Fornaro ad affermare in risposta al quesito di un’altra persona del pubblico che esiste «la certezza di atti distrutti».

SUL CASO MORO ANCHE I SERVIZI SEGRETI STRANIERI

Il compianto giudice Ferdinando Imposimato

La ricostruzione storica di migliaia di pagine di audizioni giunte al documento finale del 2017 in cui la Commissione parlamentare Moro attesta che la versione ufficiale non è credibile (tutti gli atti sono consultabili sul sito del Parlamento) nelle relazioni di un pomeriggio non può soffermarsi a delineare ogni fattispecie e fa ovviamente riferimenti a persone e fatti in parte dati per “noti”. Come i commenti alle lettere di Moro scritti su Op da Mino Pecorelli (poi assassinato probabilmente proprio perché sapeva troppo sul rapimento) che fanno riferimento a “macellaio M e legionario De”, la presenza sul luogo della strage di un ex ufficiale della famigerata X Mas, poi al soldo del Sismi, il disvelamento del covo di alcuni brigatisti finito sotto le telecamere delle Tv porima ancora che le forze di polizia iniziassero la videosorveglianza, i misteri sul luogo dell’uccisione di Moro e sulla rosa di proiettili sul petto «ritenuta la firma» di un professionista del crimine, il coinvolgimento dei servizi segreti «non solo italiani ma anche stranieri» rimarca con evidenza il deputato Fornaro avvalorando così una tesi che è sempre stata sostenuta anche dal giudice Ferdinando Imposimato, peraltro coltivando altre piste investigative e fonti a volte solo testimoniali difficili da oggettivare: come il presunto ritrovamento del covo da parte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa solo 4 giorni dopo il rapimento e non dopo la morte di Moro come risulta dagli atti ufficiali (link altro articolo a fondo pagina).

I 10 MILIARDI PER IL RISCATTO RACCOLTI DAL VATICANO

Il presidente della Dc Aldo Moro insieme al pontefice Paolo VI

Rimane invece agli atti della Commissione che fino al «18 aprile tuti gli apparati dello Stato si attivarono per cerare la prigione dopo non più» riferisce il parlamentare che divide le correnti sul caso Moro in due componenti: i negazionisti, che sostengono la versione ufficiale, ed i complottisti, che inquadrano l’intero caso dal sequestro all’assassinio come una cospirazione internazionale. «Le Br non furono eterodirette: semplicemente gli fu lasciato fare! Lo Stato non ha fatto» sostiene Fornaro inquadrandosi in una rilettura storiografica che non aderisce a nessuna delle due visioni ma si sofferma ad analizzare come in quegli anni Ottanta «l’indebolimento della Nato sul fronte meridionale» fosse una preoccupazione degli inglesi i quali ritenevano di «aver vinto la seconda guerra mondiale che a loro giudizio l’Italia aveva perso e ciò pertanto la obbligava a restare sotto la loro influenza». Nota giustamente il pm Tarditi che lo status geopolitico del Mediterraneo in quegli anni era rovente perché nel 1969 in Libia c’era stato il Golpe di Gheddafi con cui era stata rovesciata una monarchia filooccidentale. E il rischio di un Pci (finanziato dall’ex Urss dentro al governo italiano rimarco io) all’interno del governo italiano o che, ricorda Fornaro, «potesse vincere le elezioni» era troppo alto. A nulla valse nemmeno l’intervento del Vaticano, a sua volta permeato di contrapposizioni tra il Papa Paolo VI che fece di tutto per ottenere la liberazione del leader Dc e i porporati di quello Ior degli scandali, guardacaso proprietario di un palazzo dove bazzicarono i terroristi. Ecco perché Fornaro sottolinea una matrice «non solo comunista ma anche cattolica all’interno delle Br» che sembrano essersi trovate al momento giusto per prestarsi ad diventare strumento di un piano internazionale culminato con un epocale omicidio dal quale non furono dissuasi nemmeno dai loro vecchi alleati dell’Olp, atttivatasi dopo l’intervento di uno 007 italiano in Africa invocato dallo stesso Moro in una delle sue lettere.

I NOMI DEI MANDANTI… STAY BEHIND: DIETRO ALLE MENZOGNE

Il ritrovamento del corpo di Aldo Moro ucciso dalle Br a Roma, il maggio 1978, in via Caetani

Alla fine del mastodontico lavoro della Commissione Parlamentare i nomi dei mandanti risultano come l’operazione Gladio: Stay Behind, stanno dietro alle menzogne di Stato. Celati dietro le quinte di troppe secretazioni di Stato che dopo 40 anni ancora permangono: come sul nome della banca (non lo Ior) impresso sulle fascette delle mazzette dei 10 miliardi di lire preparati a Castelgandolfo dal Vaticano per dare il riscatto ai sequestratori. Troppi soldi per finire nelle mani dei brigatisti che con il miliardo e mezzo provento del sequestro dell’armatore Pietro Costa si autofinanziarono per due anni: un gravoso e pericoloso danno collaterale all’eventuale liberazione da scongiurare… Come quell’altro evidenziato sempre da Fornaro che fu il dilemma degli occulti manovratori politici: «Meglio un Moro vivo con carte libere o un Moro ucciso con carte segretate?». La risposta la si conosce, purtroppo, pur in questo intreccio di secretazioni anacronistiche e pilotati segreti: tra i quali, come un fendente allo stomaco della verità fasulla, l’inchiesta parlamentare ha aperto uno squarcio.

I TESTIMONI SCOMODI MILITARI SONO SOTTO INCHIESTA

Francesco Cossiga e Giulio Andreotti, rispettivamente Ministero dell’Interno e Presidente del Consiglio all’epoca del sequestro Moro

Uno squarcio che ci proietta brutalmente all’oggi: ad un artificiere sotto processo a Roma per falsa testimonianza per aver riferito della presenza sospetta di Francesco Cossiga, ministro dell’Interno, appena dopo il ritrovamento della R4 del cadavere dello statista, ovvero circa un’ora e mezza prima dell’annuncio ufficiale delle Br (vedi link sotto); e quella di un sottufficiale della Guardia di Finanza indagato a Novara per calunnia per aver sostenuto di essere stato in pattugliamento davanti alla prigione di Moro in via Montalcini pochi giorni dopo il rapimento (vedi link sotto), contraddicendo così ogni ricostruzione investigativa ufficiale. Quella avvalorata e dispensata al popolo dal ministro Cossiga, poi beatificato con la Presidenza della Repubblica, e dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti, condannato e poi assolto dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio proprio di Pecorelli e finito in molteplici inchieste tra mafia e massoneria. Massoneria e mafia: due parole rimaste sempre sottotraccia nel Caso Moro ma che potrebbero forse diventare utili “chiavi” per scardinare il sarcofago delle bugie, per riuscire a districare la matassa di occultamenti e menzogne aggrovigliata in 40 anni da politici, servizi segreti, strutture paramilitari e toghe che, per imperdonabile negligenza o callida premeditazione, a volte tardivamente e con diffidenza escutono i testimoni scomodi ma con celerità indagano chi fornisce testimonianze contrastanti con le versioni ufficiali, in realtà sovente farlocche.

Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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MASSONERIA E STRAGI

FONTI DI APPROFONDIMENTO

I TESTIMONI SCOMODI NEGLI ATTI DELLA COMMISSIONE

L’ARTIFICIERE NEI GUAI PER COSSIGA

GLADIO E STAY BEHIND

IL RISCATTO DEL VATICANO

Ex finanziere indagato per calunnia su “Moro” risiede a Novara

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Fabio G.C. Carisio

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