ATTENTATO AL GIUDICE BORSELLINO: 30 anni d’Ingiustizia Mafiosa nei Depistaggi di Stato e Massoneria

ATTENTATO AL GIUDICE BORSELLINO: 30 anni d’Ingiustizia Mafiosa nei Depistaggi di Stato e Massoneria

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19 LUGLIO 1992 – 19 LUGLIO 2022
Dopo i magistrati indagati per i depistaggi prosciolti anche i poliziotti

di Fabio Giuseppe Carlo Carisio

Inchiesta pubblicata il 19 luglio 2022 – aggiornamento in appendice del 19 luglio 2023

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«Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana» scrissero i giudici nella sentenza di primo grado del processo Borsellino quater, dopo che in precedenza erano stati condannati all’ergastolo sette innocenti.

Ma nonostante ciò la giustizia italiana, sovente orientata da una cultura mafiosa che consente alla ‘Ndrangheta di controllare la politica come l’imprenditoria nazionale anche e soprattutto nel ricco Nord, non è stata capace di emettere una sola condanna contro i presunti depistatori di Stato.

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“Uno Stato che non riesce a fare luce su questo delitto non ha possibilità di futuro. Dopo trent’anni di depistaggi e di tradimenti noi non ci rassegniamo e continueremo a batterci perchè sia fatta verità sull’uccisione di nostro padre”.

Lo aveva detto Fiammetta Borsellino, figlia minore del giudice ucciso nella strage di via D’Amelio, all’inizio di luglio nel corso della presentazione del libro scritto dal giornalista Piero Melati “Paolo Borsellino. Per amore della verità” che raccoglie le testimonianze della stessa Fiammetta, del fratello Manfredi e della sorella Lucia.

“E’ per questo motivo – ha ricordato – che la mia famiglia ha deciso di disertare le cerimonie ufficiali sulle stragi del ’92, non a caso mia madre non volle funerali di Stato, proprio perchè aveva capito…”.

Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice assassinato

Prima sono stati assolti gli unici due magistrati indagati per aver incanalato  su binari fasulli l’inchiesta sull’attentato dinamitardo al giudice Paolo Borsellino e alla sua scorta, perpetrato il 19 luglio 1992 in via D’Amelio a Palermo, ora hanno subito la stessa fortunosa sorte i tre poliziotti finiti sotto processo: uno assolto e due non punibili per prescrizione del reato. 

Il giudice Paolo Borsellino assassinato in un attentato della mafia

Riportiamo sotto l’esito della vicenda giudiziaria nella quale si sono costituiti parte civile i familiari del magistrato ucciso tra cui Fiammetta Borsellino che ha sempre insinuato la regia di poteri occulti nell’agguato assassino come nei depistaggi evidenziando soprattutto il ruolo della massoneria.

Come abbiamo messo in luce in una precedente inchiesta giornalistica sull’attentato al collega ed amico giudice Giovanni Falcone l’utilizzo di esplosivo militare è stato una evidente “firma” di un complotto di quella triade che governa indisturbata l’Italia fin dallo Sbarco degli Alleati in Sicilia del 1943 favorito dal mafioso dei due mondi Lucky Luciano.

Si tratta della triade composta da mafia, massoneria e servizi segreti nei quali ha sempre avuto un ruolo predominante la Central Intelligence Agency, il controspionaggio deli Stati Uniti d’America.

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Proprio la figlia di Borsellino nel libro ha ricostruito le vicende legate al falso pentito Vincenzo Scarantino, le cui dichiarazioni hanno dato vita a quello che i giudici del processo quater sulla strage di via D’Amelio hanno definito “Il più colossale depistaggio della storia d’Italia”.

Dal ruolo svolto dal gruppo di poliziotti (i tre prosciolti da ogni accusa) guidato dal questore Arnaldo La Barbera, legato ai servizi segreti, che avrebbe imbeccato Scarantino, alle inchieste della Procura di Caltanissetta guidata da Giovanni Tinebra “vicino – ha sottolineato la Borsellino – ad ambienti della massoneria”.

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«Com’è possibile che i magistrati non si siano accorti di quello che stava accadendo? Le tesi investigative proposte sono state accettate da schiere di magistrati, sia giudicanti che inquirenti. Questi ultimi, peraltro, avendo il coordinamento delle indagini, avrebbero dovuto coordinare e controllare il lavoro delle forze dell’ordine».

A questa domanda non ha saputo rispondere la Procura generale della Corte d’Appello di Messina cui furono trasmessi gli atti dai colleghi di Caltanissetta.

In queste vicende tutt’altro che trasparenti si staglia come una ferita al diritto di conoscenza del popolo italiano, in nome del quale i Tribunali pronunciano le sentenze, la distruzione delle intercettazioni tra l’indagato per falsa testimonianza l’ex ministro Nicola Mancino (poi assolto) ed il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano.

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E’ stato inoltre un riguardo fin troppo ossequioso la rinuncia dei giudici ad ascoltare nel processo Stato-Mafia, conclusosi con la piena assoluzione dei Carabinieri che arrestarono il sanguinario boss di Cosa Nostra Totò Riina, l’attuale presidente Sergio Mattarella, citato, prima della sua elezione a Capo dello Stato, dagli avvocati di Mancino che poi ritirarono la convocazione per “economia processuale”.

L’attuale Capo dello Stato rappresenta l’anello di congiunzione tra l’odierna classe politica, quella del dopo Tangentopoli in cui fu più volte ministro, l’ex Democrazia Cristiana, della quale fu vicepresidente nazionale accanto al plurindagato Forlani, ed anche “de relato” il primo governo di Palermo del dopoguerra, nel quale il padre Bernardo fu assessore dal 1943 nominato proprio dai già citati Alleati tramite l’Amgot.

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Mattarella è infatti un politico di spicco siciliano che dovrebbe conoscere bene le relazioni tra massoneria, servizi segreti e mafia in virtù dei suoi molteplici incarichi politici quale capo del Comitato Probi Viri orientato a scovare i democristiani affiliati alla massoneria dopo lo scandalo P2 di Licio Gelli, poi vicepremier con delega ai Servizi Segreti tra il 1998 ed il 1999 nel Governo D’Alema, ed infine presidente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2015 in qualità di Capo dello Stato.

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Alla luce di questa ultima rivoltante sentenza del 12 luglio sui poliziotti depistatori, ma prosciolti per prescrizione, vedremo in un’eventuale prossima inchiesta le inquietanti correlazioni tra l’attentato a Borsellino, proprio quando indagava sull’informativa Caronte dei Carabinieri del ROS di Palermo, e lo scandalo Palamara-Gate insabbiato dal Consiglio Superiore della Magistratura attraverso il rifiuto di ascoltare testimonianze imbarazzanti, come quelle di uomini che “sapevano” del Quirinale, con la complicità dell’interpretazione benevola del nuovo PG della Cassazione che non ha ravvisato gravi comportamenti tra le toghe a caccia di raccomandazioni in un gorgo perverso tra politici e magistrati.


AGGIORNAMENTO DEL 19 LUGLIO 2023

Processo all’ex latitante Matteo Messina Denaro per le stragi di Capaci e via d’Amelio

Nel gennaio 2016 il gup di Caltanissetta emise un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Matteo Messina Denaro, capomandamento di Castelvetrano latitante dal 1993, con l’accusa di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via d’Amelio.

L’imputazione si basava sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia già acquisite nei vari processi sulle stragi che si sono celebrati negli anni precedenti: infatti, secondo i collaboratori Vincenzo Sinacori, Francesco Geraci e Giovanni Brusca, nel settembre 1991 Messina Denaro partecipò a una riunione a Castelvetrano in cui Salvatore Riina comunicò la decisione di dare il via alla strategia stragista, inviando appunto a Roma il boss castelvetranese insieme ad altri mafiosi per uccidere Giovanni Falcone, salvo poi richiamarli in Sicilia per eseguire l’attentato diversamente.

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Inoltre, sempre secondo Sinacori, Geraci e Brusca, lo stesso Messina Denaro avrebbe progettato l’omicidio di Paolo Borsellino mentre questi era Procuratore capo a Marsala poiché il giudice era stato tra i primi inquirenti, insieme al commissario Calogero Germanà, ad indagare sulle attività della “famiglia” Messina Denaro, all’epoca pressoché sconosciuta agli organi investigativi, ed infatti aveva emesso un mandato di cattura per associazione mafiosa nei confronti del “patriarca” Francesco Messina Denaro, padre di Matteo.

Per questi motivi, l’anno successivo il gup di Caltanissetta Marcello Testaquadra dispose il rinvio a giudizio per Messina Denaro con l’accusa di strage; il processo si aprì il 13 marzo dello stesso anno Il 20 ottobre 2020 la Corte d’assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Roberta Serio, condannò all’ergastolo Messina Denaro in contumacia per il reato di strage.

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Messina Denaro fin dal 1993 fu inserito nella lista dei dieci latitanti più ricercati al mondo, rimanendo tale per quasi 30 anni fino al giorno del suo arresto, avvenuto il 16 gennaio 2023 nei pressi di una clinica privata di Palermo.

Solo quando ormai vecchio e malato di tumore aveva bisogno di cure sanitarie continuative a spese dello Stato…

Ergastolo Confermato al Super Latitante

Ergastolo per Matteo Messina Denaro. Il boss è stato condannato perchè accusato di essere uno dei mandanti delle stragi del ’92. La sentenza è stata emessa dalla Corte d’Assise D’Appello di Caltanissetta, presieduta dal giudice Maria Carmela Giannazzo, dopo circa sei ore di camera di consiglio.

La Corte, nel giorno del 31esimo anniversario della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, ha così accolto la richiesta avanzata dal procuratore generale Antonino Patti, che al termine della sua requisitoria aveva chiesto per l’ex superlatitante la conferma della condanna di primo grado, emessa il 21 ottobre 2020, quando Messina Denaro era ancora latitante.

Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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GOSPA NEWS – INCHIESTE MAFIA


Borsellino e i depistaggi: prescritte le accuse per due imputati, un assolto

Fonte ANSA

Il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta. Assolto il terzo imputato, Michele Ribaudo.

Erano imputati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia.

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Secondo la Procura, gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi del ’92, con la regia del loro capo, Arnaldo La Barbera, poi deceduto, avrebbero creato a tavolino i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, imbeccandoli e costringendoli a mentire e ad accusare della strage persone poi rivelatesi innocenti: da qui la contestazione di calunnia. Il castello di menzogne costruito grazie ai falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato, per i pm, i veri colpevoli a farla franca e coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano.

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E per questo ai tre poliziotti la Procura ha imputato l’aggravante di aver favorito Cosa nostra. Aggravante che, evidentemente non ha retto al vaglio del tribunale e ha determinato la prescrizione del reato contestato a due dei tre imputati.

Il terzo è stato, invece, assolto nel merito con la formula “perchè il fatto non costituisce reato”. Solo il lavoro dei pm nisseni e le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che ha ridisegnato le responsabilità nell’attentato dei clan rimasti fuori dalle indagini, e che ha scagionato gli imputati accusati ingiustamente, ha svelato un depistaggio, definito dai giudici dell’ultimo processo sulla morte di Borsellino come il più grave della storia della Repubblica. Depistaggio che questa sentenza non esclude.

Al dibattimento si sono costituiti parte civile i figli del giudice Borsellino, Fiammetta, Lucia e Manfredi, che da 30 anni chiedono di conoscere la verità sulla morte del padre; il fratello del magistrato, Salvatore Borsellino, i figli della sorella Rita Borsellino, i familiari degli agenti di scorta, oltre ai sette innocenti, scagionati dopo il processo di revisione: Gaetano Scotto, Gaetano Murana, Natale Gambino, Salvatore Profeta.

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Fabio Giuseppe Carlo Carisio

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